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25 luglio 2020 Commenti disabilitati su Intervista al Leone d’Oro 2019 Alessandro Sciarroni | Il mistero della danza Views: 1946 In depth, Interviews, News, Read

Intervista al Leone d’Oro 2019 Alessandro Sciarroni | Il mistero della danza

25 luglio 2020 | Il 21 giugno 2019, nella suggestiva Sala delle Colonne a Ca’ Giustinian, sede della Biennale di Venezia, Alessandro Sciarroni è stato premiato con il Leone d’Oro alla carriera per la Danza.

“Alessandro Sciarroni è un coreografo italiano che crea in risonanza con l’arte della performance. È il direttore d’orchestra dei danzatori e di tutti coloro che, provenienti da diverse discipline, invita a partecipare ai suoi progetti. Costruisce dei concentrati di vita al limite dell’ossessione disponendoli attorno a eventi scelti delle nostre vite fragili e ordinarie. Mette in scena i nostri corpi quotidiani in uno spazio che amplifica l’insistenza a trovare la falla che ci addolcirà e solleverà” – si legge nella motivazione.

Pubblichiamo oggi la nostra intervista,  rimasta finora inedita, che abbiamo realizzato esattamente un anno fa a Venezia, all’indomani della cerimonia di premiazione ufficiale.

 

Alessandro Sciarroni. Photo by CULT TV

Alessandro Sciarroni, sei Leone d’Oro per la Danza 2019. Hai dedicato questo premio alla tua famiglia…

Sì, come ho detto nel discorso di premiazione a Venezia, l’ho voluto dedicare alla mia famiglia e ai miei amici e, in particolare, alla memoria di mia zia Maria Pia, che aveva 30 anni più di me e la sindrome di Down. Per me è stata una specie di sorella maggiore. Ho passato tutti i pomeriggi della mia infanzia assieme a lei, perché i miei lavoravano e … non si capiva chi badava a chi… Era lentissima: faceva davvero una cosa alla volta. Ed è una cosa, questa, che ritrovo molto nel mio lavoro oggi.

Con questo Leone forse hanno premiato anche il tuo coraggio all’interdisciplinarietà. È cosa nota infatti che tu provieni da altri mondi: quello del teatro e delle arti visive. Che cosa hai portato con te da questi mondi nella danza e perché?

Mah, io non credo di aver avuto coraggio nello scegliere l’interdisciplinarietà, nel senso che non è il mio obiettivo.

La riflessione sui linguaggi non è il mio obiettivo. Per me è sempre più importante quello che voglio dire del come voglio dirlo.

Ci sono stati degli artisti durante tutto il secolo scorso che –in tutte le discipline- si sono battuti per l’interdisciplinarietà. Loro sì che hanno avuto coraggio. Noi oggi siamo semplicemente liberi di fare quello che vogliamo usando i media che vogliamo, di andare dove vogliamo. Quindi, non credo davvero di aver avuto coraggio.

Quello che ho portato dai territori nei quali mi sono formato – che sono il teatro e la performance di galleria, quindi la performance fatta dal punto di vista degli artisti visivi- è probabilmente un misunderstanding, una mancata comprensione di questi due mondi. Per molti anni ho fatto l’attore per una compagnia di teatro di ricerca e contemporaneamente studiavo storia dell’arte.

Studiavo sui libri le performance storiche degli anni ‘60 e ’70 che mi hanno molto colpito ed emozionato. In particolare penso alla body art. Pensavo che le performance del teatro di ricerca e quelle da galleria fossero molto vicine. Invece, nei primi anni 2000, quando ho iniziato a fare i miei lavori, ho capito mio malgrado che erano due contenitori che non comunicavano assolutamente [tra loro]. Mi ricordo che partecipammo ad un concorso. Eravamo gli unici a non venire dal mondo delle arti visive. Capii che per quel mondo il mio lavoro era troppo barocco. È stato come se per la prima volta capissi veramente che il lavoro di quegli artisti che avevo amato e che avevo studiato sui libri non era come me l’aspettavo, perché, in realtà, io non le avevo mai viste dal vivo quelle performance! Ne avevo solo letto e avevo visto le immagini. Ho scoperto così che, dal punto di vista ritmico, c’era una concezione di tempo molto molto diversa.  Quello che ho portato nella danza molto probabilmente è un errore: una strana mescolanza di cose che non comunicano.

Oggi la situazione è completamente diversa. Ad esempio, il Leone d’Oro per la Biennale Arte è stato dato ad un progetto che è assolutamente teatrale, quest’anno. C’è molta più apertura da parte di “quel mondo” nei nostri confronti.

Rosemary Butcher

I tuoi maestri: quali sono stati? E ancora: quali sono stati gli incontri con donne e uomini straordinari che hanno cambiato la tua vita artistica?

I miei maestri innanzitutto sono stati quelli con cui ho lavorato. Quindi, per nove anni, Mari Federica Maestri di Lenz Rifrazioni, dalla quale ho imparato l’idea di teatro come pratica, come lavoro, come rigorosa ossessione. E poi ovviamente allo stesso tempo i miei riferimenti iconografici e letterari, i fotografi che ho amato, gli scrittori, e anche alcuni artisti della danza. In particolare, ricordo l’incontro con Rosemary Butcher, qualche anno prima che ci lasciasse. È stata una delle prime persone che mi ha incoraggiato a lavorare a un progetto, progetto che poi è diventato Folks. Sono queste le persone che ricordo.

A proposito di ossessioni, parliamo di quella che tu hai per il tempo. Questo tuo uso della ripetizione, questi “pattern imperfetti”, che a me fanno pensare alle variazioni musicali e alla serialità nelle arti visive, da dove arrivano?

A volte me lo chiedo anch’io. Sicuramente l’idea di provare a testare i confini del corpo, i confini della resistenza, arriva da quel mondo di cui parlavamo prima, dalla performance art. Ma per me ha un significato completamente diverso oggi, nel senso che in quegli anni lì l’artista mostrava in scena un corpo violentato, un corpo eccessivo, un corpo portato all’estremo, perché voleva denunciare agli occhi del pubblico un altro da sé che portava una sofferenza. La sofferenza derivava dal fatto che era necessario risvegliarsi, reagire e scuotere il pubblico con queste azioni violente, estreme.

Per me, oggi, la questione è completamente diversa. È già un miracolo se lo spettatore esce di casa e va a teatro per vedere qualcosa che succede in tempo reale invece di restare nella comodità del suo computer o del suo telefono cellulare a comunicare a distanza. Quindi, non ho voglia di mostrare allo spettatore un corpo sofferente, una rappresentazione di un altro da sé sofferente. Il corpo che a volte può essere estremo e che propongo è sempre alla ricerca del piacere, un corpo che in questo sforzo cerca il piacere. Quello che tentiamo di fare è di diffondere una sorta di “energia empatica” con chi viene a vederci, cerchiamo di incoraggiare questa relazione e il fatto che si stia compiendo qui e ora.

“Your Girl” di Alessandro Sciarroni con Chiara Bersani e Remo Ramponi. Foto di Andrea Macchia

 

Da Your girl a Augusto: che cosa è cambiato?

Your Girl è stato in assoluto il primo lavoro, che è nato da una serie di riflessioni che sono poi confluite in questa performance di 25 minuti. In un certo senso descrive esattamente come ci sentivamo in quel momento: l’idea di essere fragili. Io era la prima volta che mi assumevo la responsabilità della direzione di un progetto. Chiara Bersani e Matteo Ramponi [lavorarono] nell’assoluta generosità del volersi fidare di me. Non avevamo niente. Abbiamo prodotto il lavoro nel salotto di casa mia, che non era neanche pronto, non c’era neanche il pavimento in terra, era cemento grezzo, e c’era questo bidone aspiratutto lì, che ci serviva per pulire il pavimento di cemento, che non era finito. Lo abbiamo scoperto per caso. C’era questa sensazione di fragilità e di estremo sentimentalismo. Mi ricordo che abbiamo lavorato per tanto tempo improvvisando su questa musica di Tiziano Ferro, con l’idea che prima o poi l’avremmo tolta, perché Tiziano Ferro non è qualcosa di contemporaneo. E poi mi sono detto: “Ma perché? Perché non proviamo, perché non lo lasciamo?”. Capisco che possa essere una scelta anche molto discutibile per alcuni ma, insomma, eravamo così, con la voglia di mostrarci così.

Augusto è strano perché arriva in un momento in cui… anche rispetto a quello che dicevamo prima sulla ricerca del piacere, è vero che i performer sono arrivati a ridere per un’ora e a provare piacere nel farlo e ad affezionarsi a questa pratica….[ma] è anche vero che la drammaturgia di Augusto è molto diversa dalle altre perché per la prima volta, nella seconda parte, rappresentiamo qualcosa di duro, che negli altri lavori sicuramente non c’era, e penso che questo dipenda un po’ anche dal fatto che … dal momento storico che stiamo vivendo, da quest’ondata conservatrice che sta attraversando tutti i paesi, nella quale ci sono fortissimi rigurgiti xenofobi, razzisti, di chiusura.

Augusto è la rappresentazione di una società nella quale si ride e non c’è proprio niente da ridere … nella quale si ride anche davanti alla violenza, anche davanti alla sofferenza. In questo senso è molto diverso dal primo lavoro che abbiamo presentato.

È un po’ una riflessione amara sullo stato attuale, nel quale da un lato c’è una grande libertà … ci sono tantissime minoranze che si stanno affermando … e, allo stesso tempo, dall’altro, c’è una forza che va nella direzione opposta.C’è una frizione molto grande tra queste due forze. È un momento veramente straordinario, nel quale dire qualcosa dal punto di vista artistico.

L’intuizione della risata come ti è venuta?

L’intuizione della risata mi è arrivata dalla commissione di un progetto sul gender, che è avvenuta tanti anni fa all’interno di un progetto europeo che si chiama Performing Gender, dove sono stato chiamato a riflettere su questioni relative al gender. Quindi ho iniziato a pensare alla diversità. Mi sono imbattuto nel corso del progetto nel concetto di mostruosità, e dal concetto di mostruosità sono arrivato alla lettura di Frankestein di Mary Shelly. In quel periodo probabilmente non so se per caso ho rispolverato un vecchio film di Fellini che si chiama I clowns. Da lì ho pensato che la pratica, la ricerca di quel momento potesse essere la risata. E così ho cominciato a lavorarci.

“Augusto” di Alessandro Sciarroni

Ci parli di come è nata la cosiddetta trilogia della performance?

La trilogia si intitola Will you still love me tomorrow. È nata nel 2012 con un lavoro sugli Schulplatter, che è una danza popolare tirolese e bavarese. Con questo lavoro [Folks] per la prima volta abbiamo lavorato sul concetto di ripetizione e per la prima volta abbiamo preso una danza, o meglio, una pratica che esiste già, che non ho inventato io, con l’idea di alienarla dal suo luogo originale e di ricostruirla in teatro. Quindi, in questo senso [abbiamo fatto] quasi un’operazione duchampiana, se vuoi. Questa prima operazione ha aperto l’immaginario a tantissime altre pratiche. In quel lavoro c’è stata subito un’idea molto forte di ritmo, che è continuata anche nel secondo capitolo [Untitled], dedicato alla giocoleria contemporanea, nel quale i giocolieri ripetevano in maniera quasi ossessiva lo stesso pattern, fino a quando non svelavano l’errore e la caduta, vivendoli davanti allo spettatore. A partire da quest’idea di ritmo molto forte, la sfida successiva è stata quella di provare a lavorare con qualcuno che avesse un senso dell’udito molto sviluppato. Quindi abbiamo scoperto questa pratica interessantissima che si chiama Goalball, che è uno sport per non vedenti e ipovedenti. È una specie di pallamano giocata al buio, almeno per i performer, dove l’uso dell’udito è molto importante per “detectare”, per trovare la posizione del pallone, pallone che ha all’interno dei sonagli, che risuonano in maniera particolare. Questa è stata un po’ l’apertura verso l’idea di trasportare in teatro pratiche già esistenti e entrare in contatto con le comunità che queste attività le praticano da una vita. Quindi sono state oltre che delle performance, che abbiamo presentato davanti al pubblico, anche dei processi molto lunghi nei quali c’è stato l’incontro con delle comunità.

“Folks” di A. Sciarroni. Photo by Andrea Macchia

Una parola ricorrente è ritmo. Che rapporto hai con la musica? Intendo, nel tuo processo creativo che cosa arriva prima: l’immagine, la visione, la musica?

La musica è molto importante perché insieme alla luce descrive il paesaggio. Anche per questo probabilmente a volte, diciamo, i palati più esigenti in termini di concettualismo non sono molto contenti quando vengono a vedere il mio lavoro, perché non si tratta mai di concettualismo puro, sebbene io pensi di dovere molto agli artisti concettuali, perché mi hanno influenzato fortemente quando ero uno studente, e li stimo tantissimo.

In questa libertà che abbiamo oggi di scegliere quale medium usare nel nostro lavoro, la componente musicale è fondamentale. Normalmente, i musicisti partecipano a tutto il processo di creazione, come gli interpreti, e creano una colonna sonora originale, che si modifica giorno dopo giorno e arriva a compimento pochi giorni prima del debutto. È una cosa che mi piace moltissimo, perché mi aiuta anche a parlare di quello che sente il performer, di quello che ha dentro. È come se la musica tirasse fuori l’universo interiore del performer. Se vuoi, è una pratica che si lega di più alla tradizione, alla maniera di fare spettacolo in maniera tradizionale. A me piace moltissimo. Mi sento perfettamente a mio agio in  tutto questo. Probabilmente perché sono  figlio degli anni ’80 e di una comunicazione molto immediata.

La direttrice artistica Marie Chuinard ha intitolato quest’edizione 2019 della Biennale Danza: On becoming a smart God-dess.  Tu chi sei? Un semidio, uno sciamano, un visionario, un medium o che altro mai …?

No, non sono niente di tutto ciò. Sono semplicemente una persona che lavora molto e che negli ultimi quindici anni, anzi, forse negli ultimi venticinque, non ha fatto altro che lavorare costantemente. Sono molto fortunato perché nei miei progetti sono in grado di coinvolgere delle persone che mi permettono di arrivare in un territorio dove da solo non potrei mai arrivare. Anche quando lavoro da solo, anche quando sono in scena da solo, ho bisogno degli altri per arrivare in un luogo che può essere per alcuni “radicale”. Ecco, io non sono una persona radicale, però mi circondo di persone radicali, per arrivare lì. Ecco, questo sono.

Che cos’è per te la danza …?

Come ho detto nel discorso di premiazione, per me la danza è un territorio che ho scoperto tardi, anche se sono stato un grandissimo appassionato di danza fin da bambino. La mia prima passione era quella di diventare un danzatore. Ma, sai, crescendo negli anni ’80 e in periferia …purtroppo i miei parenti mi dicevano … i miei cugini, i miei amici… mi dicevano che era una cosa da femmine. Con mio grande rammarico a malincuore non ho mai avuto il coraggio di andare oltre questo stupido tabù. Quindi l’ho lasciata un po’ da parte negli anni. È come se ad un certo punto la danza … è come se mi avesse richiamato alla sua attenzione. Dai primi anni del 2000 il corpo ha iniziato ad interessarmi sempre di più.

Per definire la danza mi piace molto la definizione che c’è su Wikipedia -anche perché su Wikipedia chiunque può andare e modificarla, se vuole – dove dice che la danza è l’arte performativa che si occupa del movimento del corpo umano, che può essere strutturata o improvvisata, in un sistema che si chiama coreografia. Mi sembra una definizione molto bella, perché è molto aperta e molto libera.

La cosa che mi piace della danza è che può non significare niente, che non ha bisogno di essere narrativa, e che esiste da quando esiste l’uomo. È una cosa incredibile, misteriosa. Mi affascina molto questo mistero.

 

Intervista di Anna Trevisan

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