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16 luglio 2021 Commenti disabilitati su Aterballetto: Alpha Grace e “O” in scena a Bassano. Intervista a Philippe Kratz. Views: 1383 In depth, Interviews, News, Posts, Read

Aterballetto: Alpha Grace e “O” in scena a Bassano. Intervista a Philippe Kratz.

Sarà la Fondazione Nazionale della Danza Aterballetto ad aprire la 41^ edizione di Operaestate Festival con STORIE, un’antologia di quattro coreografie firmate da Philippe Kratz e Diego Tortelli.
Li abbiamo incontrati entrambi, raccogliendo le loro suggestioni sugli spettacoli che vedremo in scena.
Philippe Kratz, coreografo e da anni danzatore di punta della compagnia già premiato con il premio Danza & Danza per la coreografia, ci racconta i processi creativi di Alpha Grace e di “O”, di come Pina Bausch abbia influenzato il suo modo di intendere la danza, e di quanto nel suo lavoro siano fondamentali i concetti di onestà e di condivisione.

“Se saprai sorridere con chi sorride, piangere con chi soffre e saprai amare senza essere riamato, allora, figlio mio, chi potrà contestarti il diritto di esigere una società migliore? Nessuno, perché tu stesso, con le tue mani, l’avrai creata.”
Tommaso da Kempis

Philippe Kratz – Ph. Alessandro Calvani

Che cos’è per te l’empatia e cosa ti ha spinto a costruire una coreografia su questo tema?
In Alpha Grace ho cercato di fare una riflessione più che dare una risposta sul significato di empatia. È un lavoro che si occupa di domande, che vuole porre delle domande. L’empatia è sì l’idea di base, ma per costruire il pezzo sono partito sia da un concetto musicale che in qualche maniera la riflettesse, e sia da il lavoro in sala. La colonna sonora di Alpha Grace appartiene a due interpreti, uno è Barrio Sur, alias di Dedekind Cut, un compositore e dj afroamericano che nel 2018 ha pubblicato e reso disponibile gratuitamente l’album Heart Break, subito dopo l’uccisione di una donna trans in California, e questo per me è già un punto di partenza enorme. La sua non è proprio una musica orecchiabile, è più un sound script, o almeno non ci sono delle melodie ben compiute; è come una specie di texture che accompagna tutto l’album. In questa musica c’è una densità, ci sono tanti suoni che si mescolano, è come se ci fosse qualcosa che è continuamente in crescita, in continuo divenire, ed è anche una sorta di tentativo di capire sé stessi e gli altri. Un’altra cosa che mi piaceva molto è che Barrio Sur in quest’album ha incorporato anche molte idee musicali degli anni ’50 e ’60, anni che sono stati significativi per l’empatia, in cui per la prima volta si parlava e si lottava per i diritti umani in un modo più aperto e più radicale. L’altro interprete da cui sono partito è Fela Kuti, compositore nigeriano, attivista e sostenitore del Panafricanismo negli anni ’70 e ’80. La sua musica è l’afrobeat, una musica solo apparentemente molto gioiosa e leggera: oltre alla complessità dell’interpretazione, c’è sempre un’ ottica molto empatica verso i suoi compatrioti. E poi, come dicevo, l’altro punto di partenza è stato il lavoro in sala, sul corpo del performer e la sua capacità di relazionarsi in modo empatico con chi gli sta accanto; questo può rappresentare anche una riflessione di quello che siamo noi come performer per il pubblico. Alla fine del pezzo, infatti, il performer in qualche maniera si interroga anche su quello che può rappresentare per chi lo guarda.

Parlando degli autori della musica su cui hai costruito Alpha Grace hai toccato il tema dei diritti civili e dell’attivismo, mi sembrano temi a cui tieni in particolar modo. Pensi che la danza, come la musica e l’arte, possa generare empatia su queste tematiche?
È qualcosa che ha sempre fatto parte della mia etica di lavoro. È un pensiero che ho da sempre in testa grazie a mia mamma e a mia nonna, e anche alle mie esperienze personali e di lavoro. Sono sempre stati temi che mi hanno particolarmente toccato, e penso anche che la danza abbia la potenzialità per riproporre queste idee sociali di inclusione e di proporre dei tentativi di cambiamento. Io sono cresciuto in Germania, a Leverkusen, e la scuola di Pina Bausch e del Tanztheater Wuppertal mi ha segnato molto; mi ha portato a vedere la danza come una specie di community theatre, come qualcosa che porta le persone a stare insieme, persone con vari background, con varie visioni della vita e che in qualche modo si devono trovare, devono collaborare, conoscersi, confrontarsi su vari livelli. Arriviamo a conoscerci molto bene perché siamo fisicamente vicini, ci tocchiamo, e soprattutto lavoriamo sempre con grande onestà, passando ore, settimane, mesi insieme. Sì, penso che la danza abbia questa potenzialità di fare avvicinare le persone per davvero, se c’è onestà nello scambio.

Per la costruzione di Alpha Grace hai collaborato con un drammaturgo, Tyron Stuart. In che modo avete lavorato insieme?
È stato un lavoro basato sulle domande, Tyron me ne ha fatte tantissime! Lavorare con lui è stata una mia necessità, anche per la sua relazione con la musica, perché Tyron è anche un musicista, oltre a essere un bravissimo danzatore, e drammaturgo. È un artista tutto tondo, e mi affascinavano molto il suo approccio e il suo background così diverso. Durante la costruzione del pezzo ci siamo interrogati tantissimo anche sulle possibili letture del gesto e ci siamo soffermati molto sulla musica che lui ovviamente poteva leggere con un altro orecchio: per me è stato fondamentale trovare una ritmicità anche nel lavoro. Tyron è stato un ottimo interlocutore, da una parte perché appunto mi ha posto di fronte a moltissime domande, e dall’altra parte perché è stato un valido occhio esterno che controllava se il pezzo andava nella direzione giusta.

FNDAterballetto-Alpha-grace-ph.-Celeste-Lombardi

La musica è una presenza molto forte nei tuoi pezzi, e ritorna sempre nelle tue parole. Ha sempre un ruolo centrale nella costruzione delle tue coreografie?
La musica di solito appare in un secondo momento, cerco di partire sempre da un’idea.
Diciamo che l’ambiente sonoro è comunque sempre al secondo posto, è molto importante ed abbastanza presente fin da subito. È tra i primi elementi concreti del pezzo, che non vuol dire che per forza debba essere ritmato, o che la musica sia un elemento da seguire e da assecondare sempre. Per me è importante non farsi sovrastare dalla musica, perché anche il corpo ha la sua musicalità, un suo ritmo.

Sul palco del Teatro Tito Gobbi di Bassano rivedremo anche “O”, il duetto che hai creato insieme a Ivana Mastroviti, e che abbiamo visto in anteprima nella scorsa edizione del Festival. Un duetto dal ritmo incalzante, sulla musica di Mark Pritchard e di The Field. Qual è stato il processo creativo di questo lavoro?
Lo scambio con Ivana è stato fondamentale nella creazione di “O”. Ivana e io abbiamo creato questo pezzo al di fuori degli orari di lavoro. Non è stato un lavoro su commissione, non aveva uno scopo ben preciso, e nemmeno una data entro cui finirlo. Era un anno in cui la compagnia aveva altri progetti da fare, e io non dovevo presentare un lavoro, quindi ho chiesto a Ivana di fare della ricerca, di creare un pezzo un po’ a tempo perso. È partito tutto dall’idea di eternità: ci siamo ispirati a una storia vera accaduta nel 2017 a Hong Kong, dove per la prima volta due robot umanoidi costruiti, se non sbaglio, dalla Hanson Robotics, conversavano e interagivano l’uno con l’altro. Una sorta di danza celebrativa di questo avvenimento. Abbiamo fatto un periodo di creazione di 5 mesi, è stato lungo come processo di lavoro. Eravamo da soli in sala, ci siamo ripresi con il telefonino, e la sera riguardavo il video e poi tornavo in sala con altre idee. La costruzione ritmica è stata molto importante: abbiamo costruito, decostruito e ricostruito il pezzo penso dieci volte, perché dovevamo sempre trovare il modo più giusto per affrontare la colonna sonora – che è bellissima ma abbastanza monotona – affinché non diventasse un lavoro di un unico ritmo, troppo ripetitivo. È stato un piacere lavorare con Ivana perché è un’interprete strepitosa, e poi ci conosciamo da dieci anni; è stato veramente uno scambio bellissimo.

FND Aterballetto – O – ph. Celeste Lombardi

Cos’è per te la coreografia?
La coreografia è una specie di tentativo di occuparsi della realtà, di voler fermarsi un attimo, riflettere su quello che stiamo e che sto passando, e riproporlo in un’altra maniera. Questo per me è il punto di partenza dell’attività coreografica: un resoconto di quello che stiamo vivendo in questo momento. Come danzatore invece la coreografia forse è anche un modo per conoscere gli altri e sé stessi. Un modo per entrare nella testa di una coreografa, e di un coreografo e conoscerla, conoscere un altro punto di vista, vedere per un attimo il mondo con i suoi occhi. Penso che sia anche una sfida con sé stessi addentrarsi nella visione di qualcun altro, e cercare di rispecchiarla il più possibile.

Ci sono delle chiavi di lettura, delle suggestioni o semplici parole che possiamo suggerire al pubblico per avvicinarsi ai tuoi lavori?
Trovare delle parole chiave per me è molto difficile. Quello che vorrei tanto è che il lavoro fosse onesto, vorrei che da una parte rappresentasse me e l’idea sulla quale abbiamo lavorato, e dall’altra le potenzialità degli interpreti che sono fantastici e sono i miei colleghi, in alcuni casi, da 13 anni.

Cosa ti ha tolto e cosa ti ha dato la pandemia?
Mi ha tolto completamente la possibilità di andare in sala, di stare vicino alle altre persone, anche se noi di Aterballetto siamo stati molto fortunati, e privilegiati perché abbiamo ripreso a lavorare subito dopo il primo lockdown e da lì non ci siamo quasi più fermati. E sicuramente ha tolto a tutti noi la possibilità di aver un riscontro diretto dal pubblico, che penso sia sempre fondamentale, perché è un altro metro di onestà. Penso che il pubblico reagisca molto d’istinto e questo è bellissimo da capire sia da interprete che da coreografo, e fa crescere molto. È importante avere un confronto con persone reali, avere anche solo una chiacchierata, anche solo un commento dopo lo spettacolo, perché la danza vive molto nel momento e ha bisogno di uno scambio diretto. Quello che invece mi ha dato, o meglio tolto ma in senso positivo, è un po’ di paura. Credo che sia stato veramente un momento fondamentale di onestà, forse perché avevo il privilegio di avere una casa, di avere del cibo e quindi potevo fermarmi a pensare, e riflettere. Mi ha tolto un po’ di paura anche nell’affrontare nuovi lavori, e nuovi percorsi, perché si è manifestata ancora di più l’idea che in qualche maniera non si tratta di dover fare sempre dei capolavori, ma più che altro di manifestarsi come individuo onesto in una marea di individui onesti. È lo stare insieme, e la bellezza della condivisione che riesce a sovrastare l’aspettativa di un lavoro eccellente.

di Rita Borga

leggi anche l’intervista a Diego Tortelli

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