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17 luglio 2021 Commenti disabilitati su Dance in Villa. Blackbird: l’imprevedibilità del cambiamento. Intervista a Chiara Frigo Views: 1539 In depth, Interviews, News, Posts, Read

Dance in Villa. Blackbird: l’imprevedibilità del cambiamento. Intervista a Chiara Frigo

Performer e coreografa. Il suo ciuffo rosso e ribelle non si dimentica, e neppure il suo sorriso. Solare e generosa come poche. Incontrare Chiara Frigo è un piacere, perché con la sua semplicità e sensibilità ti mette sempre di buon umore.
Qui la nostra conversazione con lei su Blackbird, un progetto “misterioso” nato durante il lockdown, che vedremo in scena il 24 luglio a Villa Da Porto di Montorso Vicentino per Operaestate Festival.

“Vi capita di alzare lo sguardo verso il cielo notturno e interrogarvi sui grandi misteri della vita? I Merli con le loro splendide piume nere quei misteri li conoscono. E soprattutto, ricordano che dal buio più profondo possono emergere infinite possibilità.”


Com’è nato Blackbird, e da dove arriva questo nome così singolare?
Durante il primo lockdown, Operaestate mi ha proposto di pensare a un progetto per il Festival Combinazioni di Montebelluna, un festival gestito da giovanissimi improntato sull’immaginare e disegnare futuri possibili. In quel periodo c’era sempre un merlo che veniva ad appoggiarsi sulla finestra di casa. Quella continuità mi ha incuriosita – mi piace andare a scoprire che tipo di “messaggi” sono legati agli incontri che fai con determinati animali. E facendo un po’ di ricerche, ho scoperto che il merlo appare nei momenti di buio, di transizione, quando nel buio si è in attesa della luce. “Essi ricordano che dal buio più profondo possono emergere infinite possibilità.” Da qui è nata l’idea di realizzare una performance in uno spazio aperto, come una piazza o un cortile, su cui aleggia il Blackbird: una presenza invisibile che guida i performer e gli spettatori. Un misterioso messaggero che si manifesta già prima della performance con dei “biglietti” spediti su whatsapp, creando le premesse di un incontro tra sconosciuti. Il tutto avviene all’ora del tramonto, in quel tempo di transizione che a me piace molto, quando dalla luce pian piano si passa al buio.

Blackbird è anche il nome di una delle canzoni dei Beatles, scritta da Paul McCartney nel 1968 come reazione alle tensione razziali esplose in America, per sostenere il Movimento per i diritti civili americano. C’è qualche riferimento a questa canzone nel tuo lavoro?
I Beatles la sapevano lunga! In realtà c’è un momento dello spettacolo in cui viene canticchiata. I performer la cantano a cappella, più o meno intonati (ride) ma non è questo il goal. Mi piace anche il fatto che non è la canzone più famosa dei Beatles…
“Merlo che canti nel cuore della notte
Prendi queste ali rotte e impara a volare
Per tutta la vita hai aspettato solo questo momento per poterti levare.”
Ecco questa cosa del levare, mi risuona molto, richiama anche il mio ultimo lavoro Fight or Flight, un gioco di parole che è in realtà una reazione neuronale che hanno gli animali, e anche noi uomini, in condizioni di pericolo, e che dice appunto attacca o scappa, vola via. Penso fortemente che in questo momento nell’arte, nell’azione performativa, ci sia quella che gli inglesi chiamano Soft Protest, una presa di posizione, e mi ci ritrovo in questo […] Non voglio tirare in ballo parole come rinascita ecc… ma insomma le ali rotte ce le abbiamo di sicuro, e c’è sicuramente la voglia di risollevarsi.

Chi sono i performer di Blalckbird?
Sono i Dance Well Teachers di Bassano del Grappa. Un gruppo meraviglioso, questo è il loro primo progetto. Sono stata un po’ pioniera anche in questo, perché di solito i coreografi fanno delle coreografie per i danzatori Dance Well ma mai per gli insegnati di Dance Well! È stato veramente bello lavorare con loro, hanno una grandissima esperienza nel lavorare con le comunità, nel lavorare con l’ascolto, nel creare connessioni con le persone. È stato molto arricchente, proprio perché hanno una grande esperienza e capacità comunicativa; e tirerei in ballo anche la parola empatia, hanno una grande capacità empatica.

Qual è stato il processo creativo di questo lavoro?
Abbiamo iniziato a lavorare sul progetto nel mese di luglio dello scorso anno, quando potevamo incontrarci solo all’aperto. L’idea iniziale vedeva i performer fermi sul posto, come in una specie di installazione, mentre il pubblico della piazza poteva muoversi tra un performer all’altro, ma il destino ha dato il suo contributo e ha stravolto tutto – del resto nella danza tutto può cambiare rapidamente. Le norme anti Covid hanno imposto che tutti dovessero rimanere seduti sulle proprie sedie, distanti un metro l’uno dall’altro, il destino vuole che nei miei progetti ci siano sempre delle sedie, come in Ballroom, e va bene così!
Inizialmente abbiamo lavorato molto sull’improvvisazione – mi sono data molta libertà nelle prime fasi. Poi quando ho iniziato a intuire la direzione, grazie anche alla drammaturgia di Riccardo Torrebruna che cura tutti i miei lavori da anni, ho ideato una partitura, un percorso a “stanze” composte da dodici spettatori ciascuna. I performer si spostano di stanza in stanza compiendo delle azioni come leggere carte divinatorie e amuleti, danzare, fare domande alle persone. Ma tanti materiali – ci sono anche dei solo – arrivano direttamente dagli interpreti, dai loro contributi.
Insomma si formano tanti piccoli clan che man mano intrecciano relazioni, diventano dei microcosmi che lasciano delle tracce, scrivono parole, co-progettano delle azioni, assecondando il desiderio e il bisogno di ricostruire una relazione, una collettività.

Blackbird-foto-Erika-Fregolent

La performance subirà dei cambiamenti rispetto al debutto avvenuto lo scorso anno in piazza a Montebelluna?
Avevamo debuttato a Montebelluna due giorni prima del secondo lockdown, ed è stato bello vedere la piazza così animata, vedere le persone ritrovarsi, farsi travolgere dai colori dello spettacolo – ad un certo punto dello spettacolo vengono sparati dei fumogeni colorati. Vedere finalmente dal vivo la performance mi ha rivelato delle cose del lavoro che in prova non ero riuscita a vedere; mi sono sempre fidata del gruppo, e di quello che stavano costruendo, ma in piazza ho visto delle cose che mi piacerebbe sviluppare. Sicuramente una di queste è l’idea che anche lo spettatore può essere parte attiva nel creare un’opera insieme; poi mi piacerebbe amplificare l’esplosione dei colori alla fine dello spettacolo, un chiaro richiamo all’Holi indiano, anche se oggi è diventata una festa occidentalizzata e ha perso la sua vera natura. A Montebelluna siamo stati cauti, perché non sapevamo come avrebbe reagito la gente; avendo reagito bene, a Montorso Vicentino triplicheremo l’esplosione di colori! E poi sicuramente vorrei modificare il finale. A Montebelluna avevamo ideato una chiusa, e invece mi sono resa conto che le persone non volevano che lo spettacolo finisse, avevano voglia di restare, scommetto che se fosse partita la musica si sarebbe messa a ballare tutta la piazza. Mi piacerebbe lasciare un finale un po’ più sfilacciato, lasciare che siano gli spettatori a decretarne la fine.

Negli ultimi anni, come coreografa hai lavorato con tante piccole comunità di spettatori, penso a Ballroom che hai citato prima, e anche Blackbird va in questa direzione.
Lavorare con le comunità mi interessa molto, è una cosa che è arrivata mio malgrado, con Ballroom, un progetto che mi era stato proposto, e a cui mi sono appassionata. Questi lavori con le comunità hanno aperto uno scenario enorme nella mia ricerca, e con il passare del tempo sono sempre di più parte integrante dei miei processi creativi, sia come coreografa che come danzatrice. L’altra sera una giornalista mi diceva che io non interagisco con il pubblico, non faccio domande dirette come invece fa Silvia Gribaudi. Le ho risposto che non sono d’accordo, che per me interagire con qualcuno non vuol dire solamente tirarlo in ballo con la parola o con il gioco, ma può succedere anche nella scena. Quindi credo assolutamente che tutta questa esperienza con la comunità, con i gruppi di spettatori, abbia nutrito tanto il mio lavoro creativo. Se Ballroom era un percorso nella memoria, Blackbird è invece un percorso sul cambiamento personale, quello che chiede il “merlo”, e che tutti i performer cercano di sviluppare nell’arco della performance, è: cosa vorresti cambiare oggi nella tua vita? C’è chiaramente una regia, una macrovisione, ma quello che mi interessa è che nessuno si senta obbligato a rispondere o a interagire immediatamente, mi interessa che le persone, gli spettatori, rendano il luogo in cui si incontrano un luogo di aggregazione, di pensiero collettivo, un’opera d’arte collettiva.

Come danzatrice e come coreografa, che cosa ti attrae nell’utilizzo del corpo?
Sono in una fase della mia vita in cui non posso pensare di non danzare. Il movimento da un paio di anni a questa parte, e in particolare modo in quest’ultimo anno, è tornato in maniera prepotente nella mia vita, è tornato a essere una priorità.
In questo momento mi interessano le onde, e i flussi che si generano con la danza, che ogni corpo può generare; sono sicuramente flussi interni, ma possono arrivare anche dall’esterno, attraversare tutto il corpo, e andarsene.
Come coreografa, al di là della fascinazione per la qualità di movimento di un performer, sono sempre più attratta dai gruppi numerosi, da partiture con tante persone. Poi mi piacciono le composizioni “matematiche”, e quando vado a veder un lavoro mi piace essere sorpresa dalla scelta dell’editing: quanto dura una proposta prima di cambiarla nell’altra, cosa succede dopo averla cambiata – il mondo israeliano in questo è molto forte. Sono affascinata anche da chi riesce a utilizzare tutti i linguaggi che vuole, il video, la parola, il microfono… Non guardo, e non cerco solo il movimento in uno spettacolo. L’importante è che ci sia un’onestà, un’autenticità in quello che vedo, nel performer, e nella visione dell’autore.

E come spettatrice che cosa ti affascina?
Sono sempre stata molto tosta come spettatrice, perché sono tosta prima di tutto con me stessa e quindi anche con quello che guardo. Come spettatrice sono affascinata dai quadri estetici, dall’immagine, dalla luce, dai colori, dall’atmosfera.

Prima dicevi che sei in una fase della vita dove non puoi pensare di non danzare. Quanto ti è mancato danzare in quest’ultimo anno?
Tanto, veramente tanto. In particolar modo è stato faticoso non avere un training.
Mi ero appena “ritrovata”, e non era stato semplice. Nel periodo in cui ho fatto West-end, poi Ballroom, poi il progetto per il Balletto di Roma – tutti progetti di cui ero la coreografa – avevo pensato veramente di smettere di danzare. E quando ho voluto riprendere perché nell’aria c’era Himalaya è stata durissima. Mi sono allenata, allenata, e ancora allenata, ero appena riuscita a ritrovarmi quando è arrivato il Covid che ha bloccato tutto. Ora però sono nella fase che se me lo chiedono dico che io a 98 anni danzerò ancora! Al di là che vada in scena o meno, la danza, la connessione con il corpo, per me è una magia, è una terapia; dovrebbero danzare tutti secondo me. Danzare vale 70 sedute di una qualsiasi tipo di pratica curativa, non a caso si parla sempre più di well-being connesso al movimento del corpo, alla danza. In inglese le chiamato Soft Skills, sono quelle pratiche di danza che sono trasmissibili anche a persone non professioniste, e che possono generare un benessere fisico e psicofisico.

Blackbird -foto-Erika-Fregolent

Torniamo allo spettacolo che andrà in scena il 24 luglio, a Villa Da Porto di Montorso Vicentino per Operaestate Festival. Ci sono altre chiavi di lettura, delle semplici suggestioni che possiamo dare agli spettatori?
La parola mistero mi sembra appropriata. Poi ci sarà chi potrà esserne affascinato e chi invece ne sarà terrorizzato; d’altra parte ci sta che non sia sempre tutto conciliante, e che come spettatori ci si possa trovare in situazioni scomode. Comunque suggerirei di non sforzarsi di capire ma di lasciarsi andare all’esperienza, di lasciarsi attraversare, trasportare, entusiasmare, odiare dall’esperienza. Credo che come guardiamo una performance dica molto di noi stessi.
Quello che mi piacerebbe, al di là della risposta immediata, è che le persone possano interrogarsi sull’esperienza che hanno vissuto, anche nei giorni seguenti. Spero che le onde della performance non siano brevi, ma a medio e lungo termine, e che la performance resti con le persone per un po’ di tempo.
Tornando invece alla parola mistero, da febbraio ho iniziato a prendere lezioni di canto; te lo racconto perché la mia insegnante crede che quando utilizziamo la voce andiamo a pescare da qualcosa di antico, di ancestrale. Io la penso allo stesso modo, penso che la danza ci riconnetta con qualcosa di antico, di invisibile, con qualcosa che non siamo in grado di definire, con quel tipo di mistero a cui non riusciamo a dare un nome.

di Rita Borga

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