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30 agosto 2018 Commenti disabilitati su EDN Video-Portrait | Sangeeta Isvaran ENGL/ITA Views: 2859 EDN European Dancehouse Network, Interviews, Migrant Bodies, News, Projects, Watch

EDN Video-Portrait | Sangeeta Isvaran ENGL/ITA

IL TESTO IN ITALIANO E LA TRASCRIZIONE IN ITALIANO DELL’INTERVISTA SEGUONO SOTTO

ENGL. | 26 August, 2018 | Operaestate Festival, B.Motion Danza | Video-interview with Sangeeta Isvaran, one of the panelist of the EDN (European Dancehouse Network) Atelier on “Enhancing citizens’ engagement in contemporary dance”. Sangeeta Isvaran, founder of the Wind Dancers Trust, is a dancer-performer who developed the Katradi method, working in marginalized, underprivileged communities using the arts in education, empowerment and conflict resolution across 30 countries. For her scholarship in the arts, she has been honored with the highest national award for young dancers – the Bismillah Khan Yuva Puraskar. She is a Fellow of the International Center for Conciliation (U.S.A.), and a Honorary Associate of the Nature Conservation Foundation (India). Speaking 8 international languages, she has taught in over 20 universities and international organizations. Here is our short video interview with her.

ITA. | 26 August, 2018 | Operaestate Festival, B.Motion Danza | Video-intervista con Sangeeta Isvaran, una delle partecipanti al simposio di EDN (European Dancehouse Network) intitolato: “Enhancing citizens’ engagement in contemporary dance”. Sangeeta Isvaran, fondatrice del Wind Dancers Trust, è una danzatrice-performer che ha sviluppato il metodo Katradi. Lavora in comunità marginalizzate e svantaggiate attraverso l’uso delle arti nell’educazione, crescita e risoluzione dei conflitti in 30 Paesi. Per i suoi studi accademici, è stata insignita del più prestigioso premio nazionale per giovani danzatori: il Bismillah Khan Yuva Puraskar. È membro dell’ International Center for Conciliation (U.S.A.) e socio onorario della Nature Conservation Foundation (India). Parla 8 lingue straniere e finora ha insegnato in più di 20 università ed organizzazioni internazionali.

Photo: Courtesy of Sara Lando

 

 

TRASCRIZIONE E TRADUZIONE ITALIANA DELL’INTERVISTA

Mi chiamo Sangeeta, vengo da Madras, Chennai, India. Non saprei come descrivermi. Ho cominciato a danzare da piccola. Ho avuto la grande fortuna di imparare con uno stupendo insegnante lo stile tradizionale di danza dell’India del Sud. Ho deciso di continuare a danzare come professione. Sia il mio insegnante che mia madre erano entrambi molto attivi socialmente. Fin da quando ero bambina ho ballato in orfanotrofi, in case di cura, in templi, o in spazi pubblici. Quindi sono cresciuta, senza nemmeno pensarci, con l’idea che l’arte fosse qualcosa da condividere, con l’idea di non dovermi esibire esclusivamente nei teatri. Credo che questa sia stata una parte molto importante della mia eredità culturale, unita al fatto che ho acquisito un’idea molto forte di comunicazione, di un concetto che in India chiamiamo “rasa” e che ho studiato per molti anni. Con la parola “rasa” in India intendiamo l’estetica fondamentale delle arti: la danza, la musica, la scultura, la pittura. Rasa è la ragione stessa per la quale si crea e si fa arte. Letteralmente, “rasa” significa “gusto”, “sapore”, “assaggiare qualcosa”. Ma sul piano teorico potrebbe essere tradotta semplicemente con “comunicazione”. Rasa è comunicare con me stessa, comunicare con il pubblico, o comunicare con l’atmosfera, con l’Universo, o con qualunque altra cosa. Rasa è trascendenza, al più alto grado, ma può essere anche intesa, semplicemente, come comunicazione. Quindi, il concetto di comunicazione per me è cruciale. Credo che quello che ci manca quando comunichiamo sia l’empatia. Spesso monologhiamo con le persone, senza ascoltarle o senza voler davvero interagire con loro. Ma la vera trasformazione avviene solo quando c’è “rasa”,.

E per quanto riguarda la sostenibilità dei tuoi progetti? Qual è la tua eredità?

“Sostenibilità”, “eredità” sono parole così grosse e sento che noi, come essere umani, invece siamo così piccoli… Viviamo forse cent’anni al massimo, se siamo fortunati. Solitamente viviamo una cinquantina, sessantina o settantina d’anni … E in questa piccola vita che abbiamo a disposizione, la sostenibilità è qualcosa di naturale, facciamo tutti parte di questo flusso che continua all’infinito: da mia nonna a mia madre, dai miei insegnanti ai miei amici alla mia famiglia. Ed io trasmetto tutto questo ad altre persone intorno a me. Credo che sia tutto qui. Il semplice “esistere” è una forma di eredità per me. Credo di aver già parlato della ragazzina con cui ho lavorato in Cambogia, quella che ha scritto una piccola poesia, in cui dice: “Sono un piccolo fiore, che aspetta solo di sbocciare, non schiacciarmi a terra. “Ad un certo punto, la poesia dice: “Io sono lo strumento degli dei, strumento sacro. Non mi toccare. Non ne hai il diritto”. Che questa ragazzina abbia avuto la forza di dire: “Non ne hai il diritto”, è qualcosa di potente, che normalmente non avrebbe avuto il diritto di dire, perché la sua è una storia drammatica, di bambina che ha subito abusi ed è stata vittima del traffico sessuale. Sfortunatamente, questa ragazzina, poco dopo averla incontrata, è morta di AIDS. Ma la sua eredità continua a vivere nelle sue parole, e lei vive in me. E credo che, adesso che ho trasmesso le sue parole a molte persone, lei viva in molte persone, no?

Come crei ponti tra pubblico, spettatori e artisti?

Lavoro principalmente nelle comunità, e lavoro con obiettivi specifici. Uso l’arte nell’educazione, in progetti di educazione, di empowerment e di risoluzione di conflitti. Quindi, quando lavoro con dei gruppi, lo faccio con uno scopo specifico, che non è semplicemente quello di creare una performance. A volte facciamo performance, ma la performance è qualcosa di funzionale, che serve a proteggerci, a difenderci. A volte, non ne facciamo nessuna, tengo solamente una lezione o un corso con molti elementi di danza, di arte performativa e di teatro ma che, allo stesso tempo, allo scopo di affrontare un taboo o comunque una tematica che racchiude un grande conflitto emotivo. Per esempio, ho lavorato con gruppi in conflitto tra loro, come i cristiani e i musulmani, gruppi dove le persone coinvolte hanno perso genitori, fratelli, sorelle. Come si può lavorare con giovani con questo tipo di vissuto per arrivare alla riappacificazione? Lavoro con prostitute, con la realtà quotidiana delle loro vite e con il perché fanno quello che fanno …. Lavoro con bambini di strada, con vittime di mine. Lavoro a diversi progetti, che hanno obiettivi differenti e che coinvolgono nei seminari gruppi diversi di persone. Ed io, ogni volta, devo tenere a mente tutto questo e rispettare il vissuto di ciascuno di loro. Alcune volte, come stavo dicendo, c’è anche un elemento performativo, con il quale mostriamo una parte del processo al pubblico. Adoro questo momento, perché finalmente le voci di queste persone vengono ascoltate. Sono voci che di solito nessuno vuole ascoltare: chi vuole stare ad ascoltare i mendicanti in Cambogia che sono senza una gamba o senza gli occhi perché sono vittime di mine? Chi vuole ascoltare i bambini di strada? Chi vuole guardare in faccia una prostituta, a meno che tu non dica: “Oh, lei è riabilitata”…? Ma chi siamo noi per giudicare chi è riabilitato o meno …? Giusto? Cos’è il cambiamento? Cos’è la trasformazione? Tutte queste questioni sono alla base dei miei seminari. Cerco di fare in modo che tutto questo non venga risolto e affrontato solo a livello intellettuale, che non venga liquidato con pensieri come: “Sono una prostituta e adesso devo pensare a come posso trovare un sostentamento alternativo, perché ho l’AIDS.” Perché non voglio stare seduta a parlarne con loro. Chi sono io per parlare a qualcuno da una posizione diversa? Sono qui solo per facilitare la conversazione e per fare in modo che il gruppo trovi da solo le proprie soluzioni. E lo tengo a mente in modo molto forte, e faccio sempre in modo di lavorare su più livelli: il livello fisico, il livello emotivo, il livello analitico e quello intellettuale, il livello sensoriale e quello intuitivo, in modo che il gruppo possa riunirsi, creare legami forti, creare fratellanze, sorellanze, per restare unito anche quando me ne sarò andata. Quindi ci sono molte ragioni per cui creo delle performance o per cui facciamo questi workshop e sono molto cosciente di essere lì come catalizzatore, e di provenire da una condizione molto privilegiata rispetto alla loro. Tutti però hanno ben presente che il motivo per cui ci troviamo lì non è essere critici l’uno contro l’altro ma essere empatici verso gli altri. Questo il mio lavoro: creare uno spazio dove si sia liberi di dire: “Sai una cosa? Sono un musulmano o un indù e ti odio.” – succede anche questo- e ciononostante riuscire a creare uno spazio dove non ci sono più né indù né musulmani e dove magari si scoprono le cose in comune, come ballare, uno spazio dove ci si guarda negli occhi, dove si fa un esercizio, o dove si gioca a scacchi, e dove alla fine io non sono più solo un indù e tu non sei più solo un musulmano ma persone a cui piace fare questo e quest’altro, e a cui non piace questo e quest’altro, e allora si diventa qualcosa di più dell’incarnazione di un’unica identità. Questa è la cosa più importante per me. Quindi, chi è l’artista? Non lo so, non lo sanno neanche loro. Perché siamo tutti in questo gioco chiamato Vita. Alcune volte restiamo a guardare gli altri. Altre volte, siamo coinvolti attivamente nel processo di dare e di mostrare.

Intervista di Anna Trevisan

Trascrizione e traduzione italiana a cura di Anna Trevisan e Elena Baggio

Foto di copertina di Sara Lando

 

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